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Umberto Senin
Annalisa Longo
100 ANNI DI ALZHEIMER

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LA STORIA

1906. E’ l’anno in cui uno psichiatra tedesco, Alois Alzheimer, presenta, nell’ambito di un Convegno che si teneva a Tubingen in Svevia (Germania), città sede di una delle più prestigiose facoltà mediche dell’epoca, il caso di Auguste D., una donna di 51 anni, di origine prussiana, ricoverata nell’Ospedale per “insani di mente ed epilettici” di Francoforte (così allora venivano chiamati gli ospedali psichiatrici!) in quanto affetta da demenza e morta per setticemia da infezione di piaghe da decubito insorte nelle ultime fasi di malattia, quando ormai era costretta a letto dall’immobilità. L’importanza di quella presentazione fu nel fatto che Alois Alzheimer, dopo il decesso della paziente, ne aveva potuto studiare il cervello, e quindi di descriverne gli elementi più caratteristici. L’aspetto era quello di un organo “raggrinzito”, cioè significativamente ridotto di volume, cosparso al suo interno di numerose formazioni che, per come si erano presentate al suo microscopio dopo averle colorate con il metodo che allora si utilizzava per mettere in evidenza le cellule nervose (quello della cosiddetta impregnazione argentica, vennero definite placche senili (PS) e grovigli neurofibrillari (GNF) date le loro caratteristiche morfologiche. Espressione le prime di cellule neuronali degenerate; le seconde di agglomerati di cellule morte e dei loro filamenti immersi in una sostanza amorfa.

Alla loro descrizione un contributo significativo fu dato da un giovane ricercatore italiano, Gaetano Perusini, friulano di origine, che attribuì i GNF all’azione “cementante” di una sostanza non meglio precisata.

1910. E’ l’anno di pubblicazione della nuova edizione del più importante Trattato di Psichiatria dell’epoca, scritto da Emil Kraepelin, studioso e clinico di rilievo nella storia della neuropsichiatria, nel quale il caso di Auguste D. viene per la prima volta riportato con la denominazione di “Malattia di Alzheimer”. Per il contributo dato dal Perusini alla descrizione della malattia, nella letteratura medica italiana essa è stata per decenni definita “Malattia di Alzheimer-Perusini”, o addirittura “Malattia di Perusini-Alzheimer”.

Seguono quindi diversi decenni di sostanziale silenzio, durante i quali le conoscenze della malattia non fanno apprezzabili progressi. E’ solo a partire dagli anni ’50 che, a causa di un progressivo e significativo aumento del numero di pazienti, comincia ad essere sempre più evidente il suo stretto legame con l’invecchiamento ed a rendere sempre più labili gli elementi che la differenziavano da un’altra forma di demenza, quella cosiddetta “senile”, ritenuta ancora fino a qualche decennio fa malattia a sé stante, convinzione questa purtroppo ancora diffusamente presente ai nostri giorni, e non solo nel nostro Paese. La malattia di Alzheimer da condizione rara, se non eccezionale, come era ai tempi della sua prima descrizione, propria dell’età adulta o giovane-anziana, diventa così malattia tipica dell’età avanzata ed ancor più di quella più avanzata. A contribuire significativamente al suo riconoscimento è la messa a punto di protocolli diagnostici sempre più sensibili e specifici, nell’ambito dei quali un ruolo preminente viene ad essere assunto dall’acquisizione di una nuova e rivoluzionaria metodologia di indagine la tomografia assiale computerizzata (TAC) che ha portato i suoi inventori, Godfrey Newbold Housfield (ingegnere inglese) ed Alan McCormack (fisico sudafricano), ad essere insigniti nel 1979 del Premio Nobel per la Medicina. L’importanza di tale strumentazione ai fini della diagnosi di malattia di Alzheimer, così come di quella successiva di Risonanza Magnetica Nucleare (RMN), sta nel fatto che essa fornisce le immagini del cervello del paziente da vivo, fornendone le caratteristiche morfo-volumetriche, permettendo così di escludere altre forme di demenza, come quelle da infarti cerebrali, emorragie, ematomi, tumori, etc.

1976. E’ l’anno in cui due ricercatori statunitensi, Peter Davies del Dipartimento di Patologia Albert Einstein di New York e David Bowen del Dipartimento di Medicina dell’Università di Washington (Seattle, USA), formulano l’ipotesi colinergica della malattia, sulla base della costatazione che nel cervello dei pazienti alzheimeriani si documenta una significativa carenza di acetilcolina, una sostanza chimica (neurotrasmettitore) che svolge un ruolo centrale nei processi cognitivi e di memoria. Analogamente pertanto alla carenza di dopamina responsabile del morbo di Parkinson. E’ dall’ipotesi colinergica che prende il via la ricerca di farmaci in grado di aumentare la disponibilità di acetilcolina nel cervello dei malati e, di conseguenza, migliorare le loro capacità cognitive.

1980. E’ l’anno in cui l’Agenzia regolatoria dei farmaci degli Stati Uniti (la Food and Drug Amministration - FDA), approva l’utilizzo di tacrina per il trattamento della malattia di Alzheimer, una sostanza che, negli studi sperimentali, si era dimostrata capace di aumentare il tono cerebrale di acetilcolina inibendo l’acetilcolinesterasi, un enzima di cui il cervello si serve per distruggerla non appena ha svolto il suo compito al fine di mantenere in equilibrio il sistema e, nei pazienti affetti da Alzheimer, di migliorare i sintomi della demenza.

1984. E’ l’anno in cui viene formulata l’ipotesi beta-amiloide della malattia da parte di George Glenner e Caine Wong, due ricercatori del Dipartimento di Patologia dell’Università della California, (San Diego, USA). Essi sostengono che la sostanza “cementante” di Alzheimer e Perusini sia una particolare proteina, detta beta-amiloide, risultato della modificazione di quella naturalmente prodotta dal cervello (per finalità solo in parte note) a causa dell’attivarsi di meccanismi che ne impediscono lo smaltimento, inducendone un progressivo accumulo e la sua trasformazione in sostanza tossica per i neuroni. E’ da questa ipotesi che si dà avvio ad una intensa ricerca di farmaci o di vaccini in grado di impedire la formazione o ridurre la tossicità della beta-amiloide considerato un “killer” per il nostro cervello.

1997-2004. E’ l’anno in cui la FDA degli Stati Uniti e il corrispondente organismo europeo, l’EMEA, approvano l’impiego clinico di 3 farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer, ad azione simile a quella di tacrina ma ad assai minore tossicità: donepezil, rivastigmina, galantamina.

2000. In Italia, viene attivato dal Ministero della Sanità il Progetto CRONOS che prevede la prescrizione gratuita dei farmaci donepezil, rivastigmina, galantamina da parte di Centri clinici esperti, attivati dalle Regioni, cui spetta anche l’accertamento della diagnosi ed il controllo periodico del malato: le cosiddette Unità Valutative Alzheimer, UVA.

2006. Esce sulla rivista scientifica “Nature”, una delle più prestigiose del mondo, un articolo nel quale, sulla base del fatto che negli ultimi tre anni la ricerca non ha prodotto nulla di significativamente nuovo per la cura della malattia, che - seppure meglio trattabile e gestibile di un tempo rimane tuttavia inguaribile-, si auspica che gli scienziati “invadano” questo campo di nuove idee, che portino a sviluppare proposte terapeutiche innovative, veramente capaci, se non di arrestare, almeno di contrastare il progressivo, angosciante aumento del numero dei malati.
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